Non di soli Alpini vive il patriarcato. Smilitarizzare e scardinare la triade Dio-Patria-Famiglia.

Il 5-8 maggio, com’è noto, si è tenuta la 93ª Adunata nazionale degli Alpini, in coincidenza con il 150° anniversario della fondazione del più antico corpo di fanteria da montagna attivo nel mondo. Dopo due anni di stop grazie alle restrizioni dovute al Covid-19, per quattro giorni la città di Rimini è stata invasa da 90.000 penne nere giunte da tutta Italia per il raduno organizzato dal 1920 dall’Associazione Nazionale Alpini (ANA) ogni anno in una città diversa nella seconda settimana di maggio. L’evento ha portato a Rimini, comune di 150.000 abitanti, circa 400.000 persone, tra familiari e accompagnatori, generando un indotto di 168 milioni di euro (stima di Trademark Italia).

Certo un’occasione ghiotta, sia per risollevare un’economia come quella del turismo di massa messa a dura prova dalla pandemia, sia per riaccendere l’entusiasmo patriottico e nazionalistico decisamente funzionale all’attuale situazione geopolitica. Profitto e militarismo quindi, cosa volere di più? Un profitto sempre a vantaggio di pochi e un militarismo che va inevitabilmente a braccetto col sessismo.

Non a caso la stampa e la politica, sia locale sia nazionale, hanno accolto con entusiasmo l’evento non preoccupandosi minimamente dell’aumento dello sfruttamento lavorativo, della privatizzazione dello spazio pubblico, della condizione dei lavoratori e delle lavoratrici del settore turistico… e volentieri avrebbero nascosto sotto il tappeto – come quasi sempre hanno fatto – anche le violenze e gli abusi denunciati da donne, soggettività lgbtqia+ e persone razzializzate. Come spesso succede, ancora una volta la voce di chi ha vissuto violenza o sopruso sarebbe stata silenziata, i loro racconti non creduti e le loro esperienze non ascoltate. Infatti è quello che sin da subito esponenti politici, vertici militari e giornalisti mainstream hanno cercato di fare, con un meccanismo ben consolidato di negazione, sminuimento, colpevolizzazione.

Un tentativo, insomma, di far quadrato intorno a un corpo che rappresenta simbolicamente l’orgoglio nazionale e a cui proprio recentemente è stata dedicata una giornata: dal prossimo anno, infatti, si celebrerà la fantomatica “Giornata Nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”, fissata significativamente il 26 gennaio, anniversario della battaglia di Nikolajewka (26 gennaio 1943) che vide protagonisti gli Alpini durante la tragica ritirata dalla Russia, un paese che avevano invaso insieme alle truppe di Hitler causando più di 20 milioni di morti.

Le segnalazioni raccolte dalla rete Non Una di Meno Rimini, da Casa Mabida Network e da Pride Off hanno però iniziato a crescere di numero (al momento che scrivo sono più di 500), rimbalzando sui canali social insieme a video di testimonianza. Si è passati quindi a una finta incredulità, si è cercato di accusare supposti infiltrati, si è parlato di episodi di “maleducazione fisiologica” fino a parlare delle famose e sempre ricorrenti mele marce. Tutto, pur di non vedere che è l’albero intero ad essere marcio, con tutte le sue radici e il terreno in cui cresce. Fuor di metafora, è l’intero sistema a essere marcio e le violenze compiute dagli alpini durante l’adunata sono solo una parte, questa volta fortunatamente visibilizzata, della violenza patriarcale.

La violenza di genere è come un iceberg di cui circa il 90% del volume del ghiaccio rimane sotto la superficie ed è lì che si trovano varie forme di violazione, discriminazione, retaggio culturale e oppressione che costituiscono le fondamenta della società patriarcale. Nel mondo almeno 7 donne su 10 subiscono violenza nel corso della loro vita (fonte ONU).

Non dovrebbe sorprendere quindi che le strade di Rimini con gli alpini si siano riempite ancor di più di violenza patriarcale. Bisogna inoltre ricordare che non è certamente la prima volta che durante le adunate degli alpini si raccolgono segnalazioni di molestie verbali e fisiche, compiute in gruppo e ampiamente tollerate. Si tratta di una costante che ha sempre caratterizzato ogni adunata tanto che persino l’ANA, dopo le dure reazioni alle ultime due adunate di Trento e Milano, aveva diffuso qualche giorno prima dell’evento di Rimini tra i suoi aderenti un piccolo vademecum con delle indicazioni di comportamento tra cui al punto nove si leggeva l’invito al “rispetto per il gentil sesso” (!!!).

Nulla di nuovo dunque sotto il cielo. La novità importante, invece, è che finalmente stiamo assistendo a una grande presa di parola collettiva delle donne e delle soggettività non più disposte a subire molestie mascherate da goliardia. Quello che sta nascendo in questi anni, attraverso i movimenti transfemministi, grazie alle reti transnazionali di Ni Una Menos, attraverso hashtag apparentemente banali come #MeToo, #sorellaioticredo o #setoccanounatoccanotutte, è un forte movimento dai mille rivoli e molte sfumature ma consapevole che la violenza di genere, in qualunque sua forma si manifesti, è figlia diretta di una cultura patriarcale che ci vuole vittime silenti; consapevole che non servono le denunce per credere alla verità delle molestie; un fiume carsico che unisce coloro che si riconoscono parte oppressa dal sistema patriarcale ma che insieme prendono forza per uscire dal ruolo predestinato di vittime, prendendo finalmente parola e mettendo in gioco i propri corpi.

Tutto ciò ovviamente spaventa chi detiene il potere perché il controllo dei corpi è fondamentale per mantenere l’ordine politico e sociale costituito. Da qui la minimizzazione, la negazione o persino la colpevolizzazione della vittima oppure, al contrario, la creazione del mostro o del femminicida “impazzito”, necessario per riportare l’evento alla sua eccezionalità senza toccare l’ordine costituito. Qualcuno forse verrà colpito ma l’insieme rimarrà salvo.

La violenza di genere non è un problema di devianza di singoli individui né di comportamenti di specifici gruppi. Essa è trasversale e strutturata all’interno della società e della famiglia. Non conosce differenze di classe, etnia, cultura, religione o appartenenza politica. Non ha nulla a che fare col desiderio sessuale ma è sempre un modo di esprimere possesso, uno strumento di potere che ha la funzione di mantenere il dominio.

Vi è quindi certamente un problema di sessismo sistemico all’interno del corpo degli Alpini come vi è però in tutta la società patriarcale. Certo è che il corpo degli Alpini, come tutti i corpi armati dello stato, rappresenta l’emblema di questa logica patriarcale basata sul controllo e la sottomissione di tutte le soggettività che non siano maschi bianchi eterosessuali cis abili ricchi perfettamente inseriti nella logica dominante. Un sistema gerarchico, quindi, in cui il sessismo – come anche il razzismo, lo specismo, l’abilismo e tutte le altre forme di discriminazione – è strettamente strutturale e funzionale al mantenimento dell’ordine costituito.

Le violenze di genere caratterizzano da sempre le forze armate, sia in tempi di pace sia in tempi di guerra. Sessismo e militarismo sono due facce della stessa medaglia e pertanto andrebbero entrambe gettate alle ortiche.

È importante ricordare, ad esempio, che in guerra le donne rappresentano sempre la maggioranza delle vittime civili e la maggioranza dei profughi e che, sempre in guerra, lo stupro non è un evento eccezionale ma una vera e propria arma che da sempre accompagna tutti i conflitti (persino le Nazioni Unite hanno dovuto riconoscere che lo stupro è una vera e propria tattica di guerra). Un’arma di guerra che è stata utilizzata ampiamente anche dai corpi militari italiani (basti pensare al colonialismo) e dalle cosiddette forze di pace internazionale, i famosi Caschi Blu talvolta evocati come la panacea di tutti i mali. Questi “portatori di pace” nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 si sono resi colpevoli di almeno 480 casi di sfruttamento e violenze sessuali, un terzo dei quali relativi a danni su minori (fonte Nazioni Unite). A tutto ciò si deve aggiungere la constatazione che le violenze sessuali sono una costante durante le adunate e nelle zone intorno alle basi militari.

Pertanto, se desideriamo davvero combattere alle radici la violenza di genere e iniziare a sperimentare nuovi mondi, la smilitarizzazione è necessaria e deve essere accompagnata dallo scardinamento della triade Dio-Patria-Famiglia (ben incarnata nella figura dell’Alpino), dallo smantellamento del patriarcato e dalla distruzione di ogni gerarchia sociale.

Selva Varengo

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